aprile 19, 2011

Per quando leggi ‘Donne in rinascita’ di Cugia e non riesce a farti stare meglio. Nemmeno quello.

Per quando passi un intero pomeriggio sui giochi ‘fuga da una stanza’. Perchè forse vuoi fuggire da qualcos altro e non ci riesci. E nemmeno quello ti fa stare meglio.

Per quando vedi le gerbere e il rosso, il giallo e il fucsia ti sembrano di plastica. E non ti accendono fiamme dentro.

Per quando la cioccolata non ti piace, nemmeno quella Buona. Nemmeno quella della Lindt, a forma di coniglietto, col campanellino appeso al collo. La guardi e senti la nausea salire da sotto i piedi, scendere dal cervello. E irradiarsi come fa un fiume con i suoi affluenti.

Per quando prendi la penna e ti blocchi. O fissi i tasti del computer come un’ebete. O le parole, nella mente, si dissolvono come la sabbia soffiata dal vento sulla spiaggia.

Per quando cominci a credere un po’ – davvero, solo un po’ – nelle tue capacità; per quando cominci a pensare di avere delle capacità. E poi all’improvviso…tutto finito puf dissolto in un lampo. Svanito.

Per quando ti basta una cosa piccola così per farti andare a terra; per farti sentire così a terra da strisciare.

Perciò ti senti pazza. Pazza e schizofrenica. Una bipolare. E desideri solo che loro, sì, loro e soltanto loro, proprio loro!, ti abbraccino soltanto, senza aggiungere parole, pesi inutili in momenti del genere. E il secondo dopo, ti chiudi come un riccio. Perchè sembreresti ridicola, perchè per certe cose non si sbrocca, certe cose sono sciocchezza, ‘ci sono problemi più seri’.

E quindi tutto il resto diventano puttanate senza senso, sì?

Forse al confronto con le tragedie. Ma anche quelle stupide ‘puttanate senza senso’ sono capaci di farti vacillare, per la prima volta, veramente, dopo anni. Anni di dedizione, di pazienza, di passione, di amore. E ti viene solo voglia di strapparti i capelli a ciuffi come nelle tragedie russe. E di gridare fino a dilaniarti i polmoni. Di prendere a calci le pareti fino a sfondarle. Di piangere fino a seccarti come una mummia.

Perchè quelle, le ‘puttanate senza senso’, sono solo dei campanelli d’allarme. Sono infide, loro. Arrivano quatte quatte, senza preavviso. E poi ti si avventano addosso. Ti mordono alla gola, proprio là, sulla vena che porta il sangue e l’ossigeno al cervello.

E perdi la lucidità.

Perchè le ‘puttanate senza senso’ si nutrono di altro. Sono deboli da sole. E allora hanno bisogno di dolori più grandi, di ferite non ancora rimarginate. O, per metterla più sul pratico e meno sul melodrammatico, di mesi e mesi di giornate mediocri, di cui ancora cerchi il senso; di visi – sempre quei visi, gira che ti rigira – che ti appaiono lisci come le pietre levigate dall’acqua, che appartengono al passato ma che tu leghi al presente, ancora, ostinata; di visi che ti perseguitano anche nei sogni, sotto forma di zombie, di ragni giganti o con le loro stesse sembianze. E proprio in quel caso diventano incredibilmente irraggiungibili. Più lontani che nella vita reale.

Ecco cosa fanno loro, le ‘puttanate senza senso’. Ed ecco perchè ne basta una, soltanto una, per spingerti giù.

Sarai abbastanza forte da rialzarti da sola, senza nessuno che ti tenda la mano?

Currently listening: “La valse d’Amélie” – Y. Tiersen

http://www.youtube.com/watch?v=5_ftpDP1cdM&feature=related

Matera. Marzo. M.

marzo 24, 2011

Riccioli neri

All’alba del giorno di mai più

beatbeatbeatbeat

grigio ferro grigio asfalto

grigio buio

BEATBEATBEATBEAT

Buio cieco.

Vetro delle lacrime

Taglienti come spine.

Giallo girasole

Di petali sfogliati

Si inchina alle nuvole:

ruvido segno

di un sole che non è più.

Cosa rimane di noi?

Puoi chiederlo alla strada.

La strada che ha rubato

Spezzato

E distrutto.

Tu chiedilo, alla strada,

la strada bastarda la strada cattiva

la strada malvagia.

Tu, chiedilo, chiedilo alla strada

Che ha mangiato che ha goduto che ha sputato

Masticato e vomitato

Sangue e dolore.

Non chiederglielo tu.

Non v’è risposta nel dolore.

Apri gli occhi e guarda loro.

Guarda quelli

Che le lacrime le han bevute

E si sono dissetati;

guardali, quelli,

che il sangue l’han raccolto

e ci si son dipinti un sorriso.

Guarda quelli.

Feriti ma imbattibili

Di marmo e mai duri.

Guardali, quelli.

E torni a respirare.

a M. V.

 

 

Currently listening: “Locked up” – Ingrid Michaelson http://www.youtube.com/watch?v=LAyabX9Ode8

The best game ever

gennaio 17, 2011

One potato

Two potatoes

Three potatoes

Four!

Lo sai Eileen?, questo è il gioco che ho sempre adorato fare. Il gioco a cui più di tutti non mi stanco mai di giocare. The best game ever. Gli inglesi direbbero così. Gli inglesi come lui, Eileen. Lo senti? No? Ma che, sei sorda? Uffa, Eileen. Però, sei proprio una palla. Ci fosse mai una volta che mi stai cazzo a sentire, cazzo. Che dici…? “Non sei tu che parli ma qualcun altro che è morto e stramorto e che per di più non riesco neanche a sentire”? Allora. Pezzo di deficiente. Innanzitutto – first of all, sempre come direbbero gli English men – Morrissey è vivo e stravivo. E lo sapresti se fossi meno presuntuosa e ignorante. Seconda cosa: Morrissey cantava e io parlavo, esimia testa di cazzo. E come non riesci a sentire lui quando canta non riesci neanche a sentire me quando ti parlo, lo sai vero? E questo solo perché sei una lungimirante succhiacazzi. No, ricoprirti di insulti non è una tecnica per indurti ad ascoltarmi, Eileen. So bene che non cadresti mai in simili trucchetti da bambini. Ciò non toglie che sei una stronza. E non fare finta di non ascoltarmi, lo so che mi ascolti invece brutta pompinara ascoltami porco Giuda o giuro che mi metto a urlare grandissima sucaminchia. Continua, continua pure a non ascoltarmi, rifiuto vivente di Chernobyl. Sai quanto me ne frega.

 Stronza maledetta, ti odio.

 

Five potatoes

Six potatoes

Seven potatoes

More!

Senti ma non è che ogni tanto si può cambiare gioco? Bello, è bello…però due palle. No, Eileen. Non tutto quello che a te “piace da matti” piace da matti anche a me. E poi, scusa, ma chi è che dice più “mi piace da matti”? Tua nonna? E chissene. Eileen, non è giusto. Perché dobbiamo sempre fare come dici tu? Anche se sono intrappolata in questo corpo con te, la mia anima non è il filo interdentale incastrato nei tuoi molari.

One potato

Two potatoes

Three potatoes

Four!

Ok. Senti. Te lo devo proprio dire. Mi sono rotta i coglioni. Questo gioco mi ha nauseato. Ma tanto tu non hai bisogno di battere i piedi per terra come le bambine, né di fare i capricci. Continuerai a fare come ti pare. E io appresso a te. Perché se tu alzi un braccio io lo alzo, se tu starnuti io starnuto. Se scopi, io scopo. Quello, ormai, molto poco in verità. Lo sai, sì? Certo che lo sai, come potresti non saperlo. Sarebbe ai limiti del paradossale, se non lo sapessi. Sai anche che hai un problema, vero? No, non è il fatto che in quei momenti lì tu ti vesti da Superman e fai vestire il tuo partner da Acquaman. Quella è solo frociaggine latente. “Analista dei miei coglioni” un tubo, Eileen. Non è colpa mia se tu hai queste fantasie. Io me le ritrovo incollate alla retina per sbaglio, per forza di cose. Quante volte vorrei scappare. Ma poi, quando ci provo mi si para davanti la terribile realtà che lo sdoppiamento ancora non l’hanno reso possibile. E se voglio scappare è unicamente per colpa tua. Lo sai, sì? Lo sai, vero, che hai un problema? Sei tutta un problema. Vedi, lo dice anche Morrissey: “I know – it’s serious”.

Five potatoes

Six potatoes

Seven potatoes

More!

There where times when I could

Oh, Eileen. Se solo tu sapessi. Se solo tu potessi sapere. Che se dipendesse da me ti farei lo sparticulo con le mutande da mattina a sera, che ti prenderei per il culo per la tua mania di addrizzare i quadri anche negli studi dei medici per non parlare di quelli in casa dei nostri amici, che ti spazzolerei col tuo spazzolino da denti i bulbi oculari fino a farli brillare per farti finalmente aprire gli occhi, che ti strapperei i vestiti di dosso per farti capire che non sei deforme che il tuo fisico può eccitare che devi essere grata per quello che hai, che ti strapperei tutti i capelli dalla testa così la smetteresti di lamentarti e impareresti ad apprezzare perfino tutti i nodi che ti si formano fra quelle autostrade di cheratina perché saresti pelata e capiresti cosa significa davvero sentire la mancanza di qualcosa

“Have murdered her”

che ti ammazzerei.

“(But you know, I would hate

Anything to happen to her)”

Il vero problema è che mi odierei. Mi odierei se ti uccidessi. Perché non sei una suicida. Non ne hai l’indole. E dietro quella maschera autodistruttiva e autolesionista si nasconde una pignola, una superba, un’arrogante, una snob del cazzo. Hai tutto questo. Che è quanto basta per sopravvivere. E ti ostini a non usarlo, a lasciarlo in soffitta a prendersi la polvere, ti ostini a cucirti in faccia questa stoffa di finta umiltà che inganna tutti tranne me, Eileen, perciò ti prego lasciami guardarti lasciami vedere come sei lasciami sbirciare quella Te PER FAVORE LASCIAMELA VEDERE!

“WOULD YOU PLEASE

LET ME SEE HER!”

One potato

Two potatoes

Three potatoes

Four!

No, Eileen. Non è continuando a fare questo stupido gioco – the best game ever, gli inglesi direbbero così – che tornerai bambina. Come quando eri bambina. Non tornerai pura, non tornerai vera. Questa è solo una stronzata. Uno di quegli zuccherini che si danno ai cavalli quando hanno fatto bene il loro dovere. Mangia allora, Eileen, mangia. Strozzatici con il tuo stupido zuccherino. Ma, in fondo, sai di meritarlo? Sei davvero certa di poter dire di aver fatto qualcosa per premiarti? No, non basta fare i compiti a casa, non basta aiutare la mamma, non basta aver portato la fottuta vecchietta dall’altra parte della strada.

Five potatoes

Six potatoes

Seven potatoes

More!

Continua pure col tuo lamento, Eileen, continua. Canti filastrocche di un popolo che non ti appartiene. Perché, non diciamoci stronzate, tu non sei inglese, Eileen. Sei italiana, nata in un paese della Puglia che per tutti i pecoroni è una specie di caput mundi e per quelli che hanno un po’ di cervello appare come la Mecca dei disperati. Puoi continuare a farti chiamare Eileen quanto vuoi, Eileen. E puoi anche obbligarmi, perché le mie labbra sono le tue labbra. Ma non è con questo zuccherino che riuscirai a cavartela. Che riuscirai a superare i tuoi traumi. Che riuscirai a spalancare la bocca e gridare. Sì. Gridare, cazzo. Basta dialoghi. Il momento di sedersi al tavolino col Diavolo e ragionarci è finito da un decennio. Stai per diventare una donna e non hai mai imparato a gridare.

One potato

Two potatoes

Three potatoes

Four!

“Do you really think

She’ll pull through?”

Pensi davvero che riuscirai a superarlo? A superare tutto questo? Con “one potato, two potatoes”?

“Let me whisper my last goodbyes”

Allora lascia che ti saluti, Eileen. Allora, ti dirò addio, Eileen. Non so se per noi è finita, Eileen, nonostante il sangue che cola in mezzo alla fronte. Quello che so è che per te, Eileen, è finita. Il tuo momento è passato. Te ne sei strafottuta del carpe diem, ci hai pisciato sopra. L’hai calpestato e hai fatto finta che fosse erbaccia. E allora, Eileen, il tuo momento è finito. E ora tocca a me.

“Let me whisper my last goodbyes”

Sì, ora tocca a me. Sì, ora. Anche se il sangue aumenta e la nostra faccia non si distingue più, quasi.

“Let me whisper my last goodbyes”

Non sei più tu, Eileen, che detti le regole. Qui, ora, comando io.

“Let me whisper my last goodbyes”

Sì, lo sento il bip dei nostri cuori artificiali. Lo sento rallentare ma, oh Eileen, non mi fermerai. Stavolta non ci riuscirai neanche con una minaccia di morte.

“Let me whisper my last goodbyes”

Siamo spacciate? No, Eileen mia cara. Tu sei spacciata.

“Let me whisper my last goodbyes”

Io sono viva. E con te, Eileen, non ho più niente a che fare.

“My, my, my, my, my, my baby goodbye”

Li sento che piangono, Eileen. Ma, onestamente, non me ne frega una sega. Stai male? Non è un mio problema, Eileen.

“My, my, my, my, my, my baby goodbye”

Dov’è il tuo zuccherino, dolce Eileen? Proprio ora che ne hai bisogno. Scarta la tua caramella del cazzo, Eileen. Quel “one potato, two potatoes” che ti faceva sentire una bambina, la brava bimba del cazzo. Scartala.

“My, my, my, my, my, my baby goodbye”

E mangiala, Eileen. Ti sarà utile, d’ora in poi. Non ingoiarla troppo presto.

“My, my, my, my, my, my baby goodbye”

Sarà la tua unica compagnia. Il tuo unico doppio, d’ora in poi.

“My, my, my, my, my, my baby goodbye”

Come direbbero gli inglesi, “goodbye”, Eileen.

“My, my, my, my, my, my baby goodbye”.

 

 

Currently listening: “Girlfriend in a coma” – The Smiths

http://www.youtube.com/watch?v=j5b_V68mQ9k&ob=av2em

Grigio

gennaio 17, 2011

Sono nuvola nera.

Sono ghiaccio asfaltato.

Sono cuore di cane assetato di sangue.

Sono frasche piegate

Bagnate di freddo.

Sono pasticci di terra

Arsi da un sole in penombra.

Sono polvere buia.

Sono mente distorta.

Sono Arianna, spoglia del suo filo.

Sono un castello e la sua rocca

Con la risacca con i fantasmi e Annabel Lee in fondo al mare.

Sono marea e sono onde.

Sono lei e sono lui.

Sono Annabel Lee

Malata

Di un amore grigio

Come questo fondale.

currently listening: “Exit” – Ludovico Einaudi http://www.youtube.com/watch?v=fjDsunjVkoQ

Voyerismo natalizio

dicembre 26, 2010

Quest’anno non chiedo niente a Babbo Natale. Anzi no. Forse ce l’ho qualcosa da chiedergli. Sì sì, ce l’ho! Meno veleno, ecco cosa voglio. Che mandi una squadra di quegli squinternati promotori di Lady Gaga dei suoi folletti a fare piazza pulita di veleno. Veleno di chi? Ma della gente, è ovvio! Ogni Natale mi preparo a una nuova ondata. Più si aggiungono numeri a ‘sto 20–, più la gente diventa velenosa. Isterica e cattiva come un chihuahua con la coda piegata. Ma dico io: cosa c’è da odiare del Natale? L’ipocrisia, il consumismo, il buonismo, il perbenismo e tante altre cose in –ismo che scendono a pioggia su di noi (altro che le nevicate)? E beh? Perché, durante l’anno non c’è niente del genere? Volete dirmi che durante il resto dell’anno sono tutti sinceri al punto da rasentare la cattiveria disinteressata, tutti comprano solo il necessario per sopravvivere, tutti hanno sentimenti giusti e imparziali, tutti si astengono dal giudicare? Mi si vuol prendere per il culo? Ma per favore. Il Natale, per le suddette piaghe in –ismo, è soltanto un pretesto in più. Una giustifica non scritta – che manco deve essere firmata dai genitori, figata! – per permettere alla gente di sbrodolarcisi, con gli –ismi, e di sentirsi in pace con se stessi. Con la coscienza al posto. Anzi. Satolli di bontà e di buoni sentimenti. Traboccanti come giare d’olio. Ventiquattro, venticinque, ventisei e il suo santissimo Stefano e già l’effetto comincia a svanire un po’. Zompo da gigante fino al trenta in cui si diventa tutti un po’ meno Grinch. Trentuno e il suo meno santissimo Silvestro, con tutte le bombe che si tira dietro. E poi fino alla Befana il tempo scivola via. Corre meglio di una gazzella. E tutti perdono quel sentirsi legittimati agli –ismi di cui sopra. E tornano, quindi, a sentirsi un po’ delle merde. Ma dura poco, eh. Io lo so perché li vedo. Anche se per poco, ma li vedo. E me li studio bene, tutti quanti. Dopo la maratona natalizia, tornano tutti ad avere la faccia rilassata di quando si piantano tutti e due gli incisivi in un limone. Tutti riprendono a essere piante carnivore. E il bello è che si sentono giustificati a farlo. Esattamente come succede con gli –ismi del Natale. E, allora, me la volete dire voi qual è la differenza? Io ce l’ho una mia personalissima visione del Natale. E no, non c’entrano niente Maria, Giuseppe e il Bambinello. Lasciamo perdere poi asini e animali cornuti, ché di quella roba ormai c’è l’inflazione. Non so se ci sia qualcosa che tanti identificano come Cristo, tanti altri come Allah, altri ancora come Krishna…e, vi dirò, al momento non mi interessa neanche saperlo. Non mi interessa ingegnarmi per cercare di darmi una risposta a tutti i costi. Per sapere a ogni costo cosa ci sia al di là della materia. Al momento cerco di capire perché se mi allontano per dueminutidue, ogni volta, mi si brucia la ciambella in forno. Queste sì che son domande che meriterebbero risposte con tanto di spiegazioni e dimostrazioni! Tornando alla nostra grazia e felicità forzata. Oppure odio e idiosincrasia da vischio e auguri. Forzati pure quelli. Sì, perché, non prendiamoci in giro, a volte si comincia a odiare il Natale per reazione alla felicità forzata. A tutti quei cretini che cantano Jingle Bells in giro per le strade, con quei cappelli da deficienti calati sulle zucche, con tanto di lucine da Bull Boys. E capisco che vi diano sui nervi…ma addirittura odiare il Natale per ‘sti deficienti col capello…! Non è un po’ pochino? Non so, io ho sempre pensato all’odio come a una scorta limitata. Un po’ come alle vaschettine della Nutella. Quelle monoporzioni tristissime, in confezioni da tre, che ti compri quando ti vuoi prendere in giro dicendoti che fai la dieta e che però hai trovato una tale pace alimentare che riesci a concederti *qualche sfizio* senza sentire la necessità di eccedere. Ecco, quello per me è l’odio. Perché se non ci stai attento, a come gestisci quei pacchettini, ti finiscono tutti subito, voilà, in un baleno. E guardate che l’odio serve. Eccome se serve! Io ne sono straconvinta. Serve come il pane. Ma più in là. Più avanti nella vita. Quando motivi per odiare davvero qualcuno o qualcosa ne cadranno a fiocchi, come la neve sull’Everest. E se fino ad allora le vostre confezioni monodose da tre di odio le avrete consumate tutte? Se non ci siete stati attenti e le avrete scialacquate tutte perché il Natale vi ha sempre fatto schifo? Cosa userete, allora, per liberarvi di tutto il malessere che vi avrà causato qualcosa o qualcuno, se di odio non ne avrete? Facciamo una bella cosa, allora. Lasciamo perdere l’odio forzato per il Natale. Diamo un calcio a tutto il veleno che si fa per reazione a tutti gli –ismi brutti e odiosissimi che ci sono in giro. E guardiamo quel che c’è di positivo. Perché di roba positiva ce n’è sempre. In qualsiasi cosa. E guardate che non sto parlando di diventare naïve o se preferite, fessi. Si tratta che non vale la pena farsi venire la schiuma alla bocca per un periodo che dura due settimane scarse. Ci sono già tante cose brutte in giro per cui si soffre e si sta male per davvero. Cose che ci fanno incazzare e abbruttire. Fatti e robe che ci fanno alterare, ci trasformano in persone simpatiche come la merda. E ‘ste robe non guardano in faccia ai giorni del calendario. Quando capitano, capitano. E magari ti capitano giusto in quei momenti in cui tu vuoi essere felice, sereno e rilassato. E non ci puoi far niente. E allora, ciao le balle. Alla luce di tutto ciò, quindi, non sarebbe meglio rivalutare un po’ il tutto? Rimettete un pochino in dentro gli occhi iniettati di sangue e le zanne; fate volar via quella mosca che a Natale vi salta subito al naso. E lasciate fuori tutta quella felicità più finta di Platinette. Non c’entra col Natale, quella roba. Come non c’entrano i regali da tre milioni di euro o quelli schifosi che si fanno tanto per fare. Se vi va, il regalo lo fate. Se non vi va, ciao a tutti. Vorrei tanto capire cosa c’entra fare la fila nei negozi col Natale. Mai capito. E prima che ve lo chiediate, sì. Io li faccio, i regali. Ma non mi danno per farli. E non sto parlando di dannarmi in termini di corse contro il tempo. Parlo del fatto che, da qualche anno, ho imparato a donare qualcosa soltanto a chi da una vita, quell’anno o anche solo quello stesso mese mi ha donato a sua volta qualcosa. Non si tratta di un baratto. Non mi piace vederla così, perché riduce tutto a roba materiale. E io nella materia credo molto poco. Parlo di un dono ricevuto che possa essere uno stimolo a imparare qualcosa di più, un sorriso, una litigata che mi abbia lasciato qualcosa, delle risate e altro ancora. È per questo che li faccio, i regali. E mi sento bene. Più quando li faccio che quando li ricevo. E non lo dico sempre perché *è Natale siamo tutti più buoni e più generosi meno materialisti e bla bla bla bla bee bee beee* in tono cantilenoso. Lo dico perché da qualche anno mi capita di provare determinate sensazioni che danno un senso a questo cavolo di ventiquattro/venticinque dicembre. Io, il mio motivo per amare – sì, avete capito bene, amare – il Natale ce l’ho. E ha così tanti nomi che non posso stare qui a elencarli tutti. Hanno tutti età e caratteristiche diverse. Mi hanno lasciato tutti qualcosa, chi più chi meno. E senza di loro non sarei stata quella che sono adesso. Cominciano per G, D, P, E, C, F, S, uff se ne ho di motivi! Ma ho dovuto trovarli, prima. Se, allora, odiate il Natale perché non riuscite a trovare motivi per amarlo, beh, datevi da fare! Starsene come delle pigne a fissare il vuoto, secondo me, non porta a niente. Non riuscirete a preparare una cena per gli amici se state a fissare il muro pensando disperatamente che non avete niente da offrir loro; come non finirete mai la montagna di lavoro che avete da fare se continuate a lamentarvi. Chi cerca, trova. E allora, datevi una mossa. Se, poi, odiate il Natale perché vi legate soltanto dei brutti, terribili ricordi, forse è il caso di ricominciare. Di ripartire da zero. Sempre senza essere per forza felici. Questa è una regola d’oro che vale sempre. Almeno, per me. Ma cercando di fare ordine. Cosa che io adoro. Se potessi passare la vita a mettere ordine sarei felice. E lo so. Adesso state pensando che mettere ordine è di una noia imbarazzante. E invece no, amici ciliegia. Mettere ordine è fantastico. Ci vuole pazienza e organizzazione. E ci vuole anche spirito di adattamento e un pizzico di fantasia. Fantasia per cosa? Voglio vedere se non riuscite a trovare qualcosa di preciso che state cercando, dove la andate a cercare senza fantasia. E la stessa cosa vale con i brutti ricordi. Prendeteli e ammassateli in un angolo. Passateli al vaglio. Smistateli. E poi distribuiteli uniformemente dentro di voi. Secondo il vostro ordine. Che naturalmente non è il mio né il suo né il loro. E – dopo aver completato la coniugazione – vedrete che un po’ di casino verrà meno. E vi sembrerà che qualche piccolo spazio vuoto sia saltato fuori. Per quanto minuscolo possa essere. Eccolo lì, l’angolino pulito, pronto per essere riempito. E vale la pena riempirlo di nuovo con altra roba brutta? Mettiamoci qualcosa che possa spezzare la monotonia del brutto legato al Natale. Mettiamoci…che ne so…un’amicizia nuova, una mano di carte al “morto” che vi ha fatto letteralmente piangere dalle risate, mettiamoci un regalo fatto da qualcuno che non ve l’aspettavate. O anche un film rivisto in quel periodo che vi lega a ricordi, tempi e persone migliori. Valgono anche queste cose. E se proprio ancora non ci riuscite, a voler bene al Natale, vuol dire che non è il momento. Ma non è detto che non arrivi, il vostro turno per amare il Natale. Quello che è sicuro è che non si riuscirà mai a cambiare niente, dentro e fuori se stessi, rimanendo fermi sulle proprie posizioni. Armati delle proprie ferree e inossidabili convinzioni. Non siete onniscienti. E, per chi crede, non siete Dio. Persino Lui sbaglia. Pensate a quante teste di cazzo ci sono in giro.

Buon Qualcosa a tutti voi!

Currently listening: “Sewn” – The Feeling http://www.youtube.com/watch?v=5Li9B_bMJXU

In alto a sinistra

dicembre 10, 2010

Lorsignori forse mi conosceranno. O, perdinci bacco, forse no. Mi permettano di presentarmi: io sono Norberto Efeso Orimbaldo, duca di NostrumEsOblatio, un ridente paesino della provincia di Cute. Come dicono? Non conoscono Cute?? Poffarbacco, codesta sì che è una real pinzillacchera! Devono perdonarmi, Lorsignori. La mia illustre persona è sempre stata abituata a confrontarsi con Cavalieri e Madamigelle degni del Suo proprio rango, mai con bestie da soma. Dopotutto ogni uomo di mondo, nella Sua vita, deve affrontare le più aspre delle intemperie e le più inimmaginabili delle paure. Orbene, le mie, evidentemente, il Destino l’aveva predette con la Sua lungimirante palla di cristallo da lungo tempore. E ora debbo proprio affrontarle, temo. Ordunque, non indugerò ancor. Non sia mai detto che La Mia Illustre Persona sia tacciata di codardia. Ebbene, Lorsignori debbono sapere che io sono Signore molto stimato, temuto e rispettato dai bifolchi delle mie terre. Come dicono? Che fellonia è mai questa?? Non v’è dubbio che io sia unico signore e padrone dei miei possedimenti! Entro le cinta murarie dei miei acri non v’è alcun altro aristocratico che minacci di far passare in second’ordine il mio ruolo. Abbiano la compiacenza di trincerare le loro umide e inutili appendici del loro incavo orale dietro castelli di ciò che si definisce “d’oro”…Come dicono Lorsignori? Non capiscono? Per Diana: “che tacciano, Lorsignori!” Non pareva essere poi così difficile! Oh, ma..!, chiedo venia…La Mia Regale Cervice Interiore dimenticava la rozzezza della Loro condizione. Siguiendo adelante – perché io, Norberto Efeso Orimbaldo duca di NostrumEsOblatio, sono anche esperto conoscitore delle lingue moderne, com’è d’uopo nei nostri dintorni – risponderò a tutti i quesiti, di qualsivoglia natura siano, che Lorsignori mi porranno. Come? Come dicono, Lorsignori? Volete che m’adopri a disquisire del mio ridente e amato paesino della provincia di Cute? Via, via…non abbiano a poner maschere tristi sui loro miserrimi volti. Conosco le recondite profondità del loro animus – perchè io, Norberto Efeso Orimbaldo duca di NostrumEsOblatio, sono anche esperto conoscitore delle lingue antiche, com’è d’uopo nei nostri dintorni – e ben so che il loro vuole essere un sempliciotto tentativo di darmi a intendere di non voler arrecare disturbo oltremodo alla Mia Illustre Persona. Deh, bagattelle! Mi industrierò col massimo della mia ingegnosa operosità in illustrar a Lorsignori il ridente paesino di NostrumEsOblatio della provincia di Cute. Dieci anni orsono, la mia regal casata intraprese una importante campagna di colonizzazione di nuove terre e di nuovi mondi. La attendeva l’oneroso compito di civilizzare popolazioni selvagge e del tutto estranee al buon costume, con la speme di allargare la nostra già allor nobile e nutrita casata. Il buoncostume a cui testé abbiamo fatto cenno trovava fondamenta nel piegare le scorrette abitudini delle popolazioni indigene alle nostre luminose, civili regole di galateo e convenzioni sociali. Ahimè, La Mia Regal Casata non incontrò un facile terreno da arare e su cui seminare i germogli del benessere sociale e culturale: lunghe e faticose guerre erano alle porte, battaglie asperrime e cruente oltre ogni dire, che avrebbero provato duramente La Mia Regal Casata, La Stessa Regal Casata Da Cui Discende La Mia Illustrissima Persona, Norberto Efeso Orimbaldo. Passò un lustro e l’epopea delLa Mia Regal Casata si fece sempre più arcigna: il terreno di Cute era sempre meno generoso, il Corpo che l’ospitava era sin troppo forte per farne un avversario facilmente soggiogabile. Ma La Mia Regal Casata era decisa a non soccombere. Ella giurò infatti solennemente che mai si sarebbe lasciata trascinare nella polvere della salute dalle, seppur potenti, difese di quel Corpo ostile. Quei marrani, quei felloni, quei maledetti Globuli, che il diavolo li porti! Cani! Vili! Schiere interminabili di soldatini bianchi senza arte né parte che ostentavano quei quattro poterelli che avevano ottenuto in modo sì subdolo e con una odiosa superbia di tal fatta che parevano dire: “Vengano pure avanti, siam pronti a batterci e a morire per il benestare del nostro Corpo!”. Ma La Mia Regal Casata non si perse d’animo, sguainò le sue più potenti spade e ricorse ai più potenti guerrieri del reame, i temutissimi Metastasi, per piegare l’insignificante resistenza campanilista di NostrumEsOblatio, ridente paesino di Cute. Indi vi riuscirono, evitando la singolar tenzone con il campione di Cute, un forestiero di nome Che Mio, del lontano Cipango o forse dell’ancor più lontano Catai. Fu allora che La Mia Regal Casata impose il proprio luminoso dominio sul ridente paesino NostrumEsOblatio della provincia di Cute. Passò un altro lustro e La Mia Regal Casata cresceva prosperosa, ricca, florida e con una sana e robusta Costituzione. Poche altre volte, nel corso degli anni, il Corpo ha tentato di sollevar il capo, ribellandosi al governo della Mia Buona Dinastia. E pur tuttavia, mai è riuscita a piegare I Miei Nobili Trisavoli, liberando Cute dal Loro Dominio. Come, come? Come dicono, Lorsignori? Dove si trova NostrumEsOblatio? Perdirindindina! Ho già spiegato a Lorsignori che NostrumEsOblatio è un ridente paesino della provincia di Cute! Come dite, ancora? Dove si trova Cute precisamente? Sazierò la vostra sete di sapere in un batter d’occhio: Cute è un piccolo centro a nord del Corpo. Oh, ma che sventato! Chiedo venia. Lorsignori son dalla parte della ragione. Debbo essere più preciso, datosi che il Corpo è letteralmente disseminato di centri che si chiamano Cute. NostrumEsOblatio si trova nella Cute nordoccidentale, in alto a sinistra. Ohibò! Come sarebbe?? Ancora non vi è chiaro?? Sono terribilmente spiacente, ma ora debbo congedarmi. Siamo alle battute finali di questa aspra e lunga guerriglia e il campo di battaglia attende il suo condottiero. E pur essendone già praticamente usciti vittoriosi, non è mai mossa saggia abbassar troppo la guardia. Non sia mai che spunti fuori un altro Che Mio che questa volta possa mandar all’aria I Miei Regali Progetti! Lorsignori mi scuseranno. Auguro Loro un radioso proseguimento di giornata. Ah!, or che mi sovviene: per qualsiasi ulteriore chiarimento su NostrumEsOblatio, potete rivolgervi all’Uomo Dal Fiore In Bocca. I miei omaggi.

Currently listening: “Being for the benefit of Mr. Kite” – The Beatles http://www.youtube.com/watch?v=vCiG7xoEb2Y

Primadonna

dicembre 9, 2010

Guardava quel gelido clone crudelmente sincero che aveva davanti a sé.

Un doppio così perfetto come solo gli specchi riescono a esserlo.

Guardava il suo corpo segnato, impervia via battuta da un implacabile guerriero.

Le parole.

C’era stato un tempo in cui le aveva fagocitate, fino a rischiare di esplodere. Le si depositavano sui fianchi, sulla pancia, nell’interno delle braccia e delle cosce. Si adagiavano sulle guance e sotto il mento. Morbidi vorrei volavano sul suo corpo, atterrando in raffermi ma non posso che si trasformavano poi in gelatinosi però lo faccio uguale: era bambina;

c’era stato un tempo in cui le aveva rigettate, un tempo in cui la sola idea di avere delle parole che le si scioglievano sulla lingua come pop-corn bollenti al burro la disgustava. Era, questo, un tempo in cui guardava se stessa e non vedeva altro che cuscinetti di sei e cellulitici rotoli di un mostro. Riluttante, non si nutriva. Lasciava le parole al bordo del suo piatto, giorno dopo giorno. Se forzata, le vomitava. Due dita in gola e un fiume di acidi e dolorosi sono un mostro le saltava in gola, riversandosi all’esterno: era adolescente.

Era cresciuta così. In un eterno girotondo fra bulimia di frasi superflue e anoressia di punti e virgola. Il suo corpo si era gonfiato e si era prosciugato, in un costante movimento da fisarmonica che le aveva fatto assumere una forma tutta sua. Forse non bella, ma sua. Unica.

E poi era arrivato un tempo in cui esagerazioni e privazioni si erano fuse. Aveva mescolato le une con le altre fino a farle amalgamare e aveva ottenuto la più bella e buona delle vellutate: aveva imparato a centellinare. Dei testi sorbiva tutto, fino all’ultimo asterisco delle note a piè pagina. Aveva imparato a usare le dosi giuste di ma e di però e aveva capito che spiaccicati insieme alla rinfusa non producevano nulla: il testo impazziva. Come la maionese. E lei aveva capito che non voleva far colare giù dal lavandino neanche il più piccolo dei se. Aveva imparato anche ad ascoltare la sua fame e la sua sete di parole: sapeva quando chiudere un libro in modo da sentire ancora quel pizzicorino piacevole in fondo a se stessa che le diceva che non era ancora totalmente satolla. Non è forse vero che “ci si deve alzare da tavola avendo ancora un po’ di fame”? Spiluccava croccanti adesso senza mai esagerare, accompagnandoli di tanto in tanto con sorsate di lo so. E tante, tante, fresche e stuzzicanti manciate di puntini puntini puntini…

Stava diventando una donna.

Restituì lo sguardo a quel doppio che aveva davanti, che la imitava come un pappagallo.

Cosa mai avrebbe potuto essere, quello lì? Quel ridicolo fantoccio di vetro di fronte a lei.

Il suo corpo era segnato, c’era una vita perpetua di parole su di lei.

Quello era il suo testo.

E suo soltanto.

Perché lei era una primadonna. La primadonna. Di quel mondo di chissà e di sarò che la aspettavano. E che le avrebbero fatto mutare ancora una volta fisionomia.

In piedi davanti a quello specchio, masticava con cura: m, d, a, p, n, r e ancora p; fino a fare un pallone di primadonna.

E con quel palloncino appeso alle labbra, sorrise al suo doppio. Se ne andò e senza voltarsi chiuse la porta.

Currently listening: “Primadonna” – René Aubry http://www.youtube.com/watch?v=k5qMedlo-Ww

Non nasconderti.

dicembre 8, 2010

Questa è una piccola perla sfilata a quella che mi auguro sia la collana dei futuri scrittori della mia generazione. Questa è una piccola perla luminosa che non mi delude mai e che è sempre capace di accendere delle emozioni dentro di me. Anche quando in me sento il deserto. 

 

“Tu conta e noi ci nascondiamo!”

“Ma non tocca a te?”

“No, non è vero. Io l’ho fatto ieri.”

È vero, è il mio turno, oggi, ma a me non piace stare ferma. Non mi piace nemmeno contare. Io voglio correre. Che importa: nessuno lo ricorderà. “L’ho fatto ieri” è un vecchio trucco, ma funziona sempre.

“Conta fino a venti!”

La figlia della vicina borbotta qualcosa, poi sbuffa, poi si copre gli occhi con la mano e comincia a contare.

Uno, due, tre.

Ci guardiamo tutti, prima di separarci. È solo un momento, gli occhi sono già lontani. Le scarpe pronte a piegare l’erba. Gli occhi al passo con le nuvole.

Quattro, cinque, sei.

L’aria ci spinge, comincio a correre. Tutti sanno già dove andare, è per questo che la guardia li scoverà. Questa volta, cambio nascondiglio. Non devono trovarmi, non mi troveranno. Corro più veloce, il vento sulla faccia, nella pancia, tra i capelli.

 Sette, otto, nove.

La voce è ormai solo un’eco lontana, la perdo. Dicono che quando non la senti più, la voce che conta, allora hai trovato il posto giusto, ti sei nascosto bene.

Quest’albero è grande abbastanza, in un attimo la schiena è contro il tronco, sembra vecchio, con le rughe. Respiro con fatica ed eccitazione. Mi sporgo solo un attimo, voglio essere sicura che non arrivi nessuno, qui. Questa volta vinco, questa volta salvo tutti.

Ancora vento e silenzio. Come prima di una pubblica esecuzione. Gli occhi scavalcano le fronde.

Com’è quella canzone?

“E l’albero è piantato in mezzo al prato, e l’albero è piantato in mezzo al prato.” Rido.

“Indovina sopra l’albero che cosa c’è? Ci sono i rami, i rami sopra l’albero, e l’albero è piantato in mezzo al prato.”

Un rumore. Il cuore mi guizza in gola. Silenzio.

Devo averlo immaginato, immaginato soltanto. Ancora un rumore.

Mi sento lepre, veloce e immobile.

“Chi è quell’uomo grande in mezzo al prato? Chi è quell’uomo grande in mezzo al prato?”

Si avvicina.

Mi sento coniglio, con le orecchie dritte e gli occhi inquieti.

Tu sei il lupo?

Sorride. È il lupo.

“Che cosa vuole il lupo in mezzo al prato? Che cosa vuole il lupo in mezzo al prato?”

È tanto vicino che sento il suo respiro nel mio naso.

Conta fino a venti, fino a venti.

Uno, due, tre. Tredici, ventisei.

Mi copre la bocca con una mano, le dita sporche contro le mie labbra.

“E l’albero è piantato in mezzo al prato…”

Una mano sulla bocca e l’altra tra le cosce. Le dita sporche, tra le cosce. Mi solleva la gonna. Cerca un segreto che neanche io conosco. Tremo.

Gli occhi come chiodi sulla pelle. Schegge di vetro rotto. Vetro rotto sulle gambe.

“Indovina sopra i rami che cosa c’è? Ci sono le foglie, le foglie sopra i rami, i rami sopra l’albero… E l’albero è piantato…”

Sento la sua saliva sul collo, la lingua mi sporca l’anima.

Ha le mani forti, perché mi bloccano le braccia, con violento desiderio. Spingono le unghie, nella carne, e sono lividi. E sono lividi. Viola su bianco. Viola, come la maglietta che non nasconde niente.

Non c’è niente sotto la maglia. Nessuna forma da scoprire. Le tue mani non trovano niente, sotto la maglia.

La mia maglietta viola in mezzo al prato, la mia maglietta viola in mezzo al prato.”

Il suo respiro. Il suo respiro mi morde i fianchi. Sento la sua eccitazione cercare la mia paura. La trova, la afferra, la penetra. Un cuscino su tutti i miei no, soffocano.

E mi sento agnello, a cui s’impedisce di piangere, a cui si ruba la voce.

“Ho solo dodici anni in mezzo al prato, ho solo dodici anni in mezzo al prato.”

Il dolore è acuto. Si arrampica fino alle orecchie. Il terreno mi graffia la schiena. Brucia, come la sabbia a mezzogiorno. E vorrei essere al mare. Mamma, portami al mare, portami al mare quando tutto finisce.

“Vorrei gridare aiuto in mezzo al prato, vorrei gridare aiuto in mezzo al prato.”

Aspettatemi! Arrivo e salvo tutti! Oppure trovatemi, trovatemi voi. Ho le gambe addormentate, non posso correre, non ci riesco. La prossima volta, conto io, Gesù. Ti prometto che di bugie non ne dico più.

“L’albero è piantato…”

Adesso mangio erba e terra.

Mi sento capra, con i denti verdi.

Vorrei sputare via tutto. Polvere nel naso e polvere dentro. Sulle spalle, il sudore del boia. Piangono le vertebre, sembrano piegarsi sotto questo peso sconosciuto. Mamma, sono caduta, rimettimi in piedi. Rimettimi in piedi.

La maglietta viola è vicina vicina. Se solo allungassi il braccio, riuscirei a stringere la stoffa. Non farebbe così male. “Stringi forte la mia mano, brucia tanto? Adesso passa, tu stringi.” Disinfettami il ginocchio, mamma, come tutte le volte che cado. Ti prometto che non faccio i capricci. Ti prometto che la prossima volta conto io, non imbroglio più, Gesù.

Il peso si stacca da me.

Mi sento gabbiano, con le ali a metà.

È ancora vento e silenzio, come dopo una pubblica esecuzione. Il boia si allontana, sangue sulla lama.

Chiudo gli occhi.

Mi sento serpente, che striscia in silenzio.

Se anche i serpenti hanno le guance, la destra è vicina all’Inferno.

Dieci, venti, trentatré. Trentatré sono gli anni di Gesù. Mi perdoni, se anche ho detto una bugia? Giuro che non lo faccio più.

“Adesso tutto tace in mezzo al prato. Adesso tutto tace in mezzo al prato.”

Dicono che quando non la senti più, la voce che conta, allora hai trovato il posto giusto, ti sei nascosto bene.

 

Mi sento verme. Secco e abbandonato.

E l’albero è piantato in mezzo al prato.

 

Dedicato a tutte le vittime dei boia. Perché, nella catarsi, possano sentirsi aquile. Forti e libere di volare.

 

 

Non nasconderti di Roberta Mannarella

Currently listening: Maxence Cyrin – “Where is my mind” (Pixies cover) http://www.youtube.com/watch?v=4NZdggNUvq0

La “calocagatia”. Che non è una parolaccia…

dicembre 1, 2010

La “calocagatia”, questa sconosciuta. Che in realtà sarebbe kalokagathia, se solo fossi un po’ rozza e meno volgare. Ma la volgarità ultimamente va così di moda, più del leopardato e di Lady Gaga, che mi sono concessa questa piccola sbronza letteraria. Cosa sono andata a riesumare, “giuda ballerino”, per dirla con uno dei fumetti più affascinanti di tutti i tempi. D’altronde il liceo classico mi doveva pur servire a qualcosa. Col mio diploma non mi prendono a lavorare neanche come shampista, devo continuare a studiare cercando di prendermi una laurea – ultimamente sarebbe più facile affrontare il mostro finale di SuperMario -…per poi comunque avere la possibilità di trovare un lavoro pari alle probabilità di vedere un alligatore che balla la break dance. Però col mio diploma e con la mia laurea posso pavoneggiarmi sui blog. Maronn, mi sento troppo figa. Scioriniamo la cultura, allora.

“Kalokagathia è la traslitterazione di un’espressione greca (καλὸς κἀγαθός, kalòs kagathòs, crasi di καλὸς καὶ ἀγαθός, kalòs kai agathòs ).” Sciorinamento un par de ciufoli. Finora mi sono rivolta a Wiki. Bon, passiamo al mio linguaggio rozzo e terra terra. Un pizzico di migliaia di anni fa – solo un pizzico, q.b., chè senno la cultura classica mi impazzisce come la maionese – c’era questa allegra e dottissima popolazione: c’erano una volta i Greci. Questi grandi ed esteti Sapientini, mettendo vicino due aggettivi, si accorsero che si accocchiavano meglio del cacio con i maccheroni e allora tirarono fuori un concetto a mio parere rivoluzionario: se sei bello sei pure buono. “Figo dentro e fuori”, forse, si adatterebbe di più ai giorni nostri. In tema di adattamento, allora, meglio togliere tutte ‘ste “k” e ‘sti “th” – non vorrei che poi qualcuno mi si confondesse con l’inglese – e vestire questo modernissimo concetto di panni più attuali: passiamo alla “calocagatia”. Che non è una parolaccia…nè tantomeno un qualche bizzarro modo di perdere peso aumentando le visite alla ritirata. Una volta capito questo, ce l’abbiamo in pugno la calocagatia. Bene. Ora. Mi sorge un dubbio amletico. L’ideale ellenico di connubio fra bellezza interiore ed esteriore corrispondeva alla possenza fisica per gli uomini o alla sinuosità del corpo per le donne, che necessariamente erano il preludio di doti morali, di virtù, come il coraggio, la raffinatezza, la cultura et similia. Pensiamo un attimo a Ettore e ad Achille e alle etere, quelle belle ciacione acculturate che facevano del loro corpo tornito un vero e proprio tempio da accompagnare con abbondanti porzioni dei più raffinati dei saperi. Questi ultimi, portate essenziali, non tristi contorni. Tornando un attimo indietro al dubbio amletico di cui sopra…se il modello dell’antica Grecia era costituito da potenti, prestanti, coraggiosi eroi  e da belle maggiorate, femminilissime Pico della Mirandola ante litteram…mi chiedo: quali sono i modelli di quella cosa – “calocaga”-che?, chè mi sono già scordata…? – di cui parlavamo sopra? Se mi proponete le letterine, le coloradine, le veline e le merdine, giuro, vi parte uno sputo in un occhio. Anzi, in testa. Che fa sempre più effetto e vi rimane come souvenir indelebile negli annali della vostra memoria, un po’ come succede con i piccioni a piazza San Pietro. Se devo accendere la tv e vedere che un bisonte sgraziato finto-biondoplatino di centotrenta chili, con due tette grandi come due galleggianti, che si muove e parla con la stessa grazia delo yeti, mi viene proposto come modello di bellezza e perfezione…beh, no. Ciao le balle. Spengo la tv e piuttosto prendo a martellate tutte le finestre. Chè almeno, poi, le schegge dei vetri frantumati si possono riciclare e faccio qualcosa di utile. Per un ultimo spasmo del loro agonizzante cervello generale, almeno, i media non sempre dicono che a questa “bellezza” corrisponde anche una qualche virtù morale particolare. Niente calocagatia, allora. Almeno, non alla maniera ellenica. Infatti, a volte – per non dire quasi sempre – si propone una specie di nuova calocagatia: la calocagatia 3.1 advanced. Quelli che nell’antica Ellade erano considerati disvalori nel nostro magico mondo telematico, che fa un baffo al “1984” dell’amico Orwell, diventano le vere virtù. La seconda parte della calocagatia 3.1 advanced. E, in effetti, più che di virtù si tratta di figaggine. Se sei stronzo e ignorante sei figo. Bon. Dio è morto, Marx pure e anche le virtù non è che stiano tanto bene, parafrasando qualcuno. All’antico concetto di calocagatia greca, nei ridenti villaggi limitrofi a Sparta e ad Atene, si contrapponeva il brutto e cattivo: Tersite, soldato semplice dell'”Iliade”. Una specie di predecessore del gobbo di Notre Dame, pure stronzo e cattivo. Sì, perchè il miserabile ce le aveva tutte lui: bastardo, infido, cesso e pure zoppo. Il simbolo perfetto da contrapporre a quei pezzi di ragazzi di greci e troiani. Ma questo avveniva nell’antica Grecia, quando le virtù erano virtù, i buoni più o meno si intuiva da che parte stavano e i cattivi no. Oggi, che non si intuisce più manco dove stanno i buoni, la situazione si è rovesciata. E se tanto mi dà tanto mi sa che è meglio che mi venga la tersitite. Ultimamente, tra l’altro, ho cominciato a camminare anche un po’ sciancata…

Currently listening: “Grease”

http://www.youtube.com/watch?v=Z5Z6LPdOJAw

Dolore bianco

novembre 30, 2010

“When I grow older

I will be there at your side

to remind you

How I still love you”

(Queen – “Love of my life”)

Afferrò il cuscino con tutte e due le mani. Un gesto lento, asettico. Un movimento da droide. Come quelli delle gru che aveva visto tante volte al lavoro per le strade. Tirava su quel cuscino, lei, la gru umana. Lo tirava su e pesava, pesava, pesava. Un semplice, stupido cuscino in piuma d’oca, con qualche strappo lungo le cuciture inferiori e gli angoli un po’ consumati, risultato di quel suo giochino infantile che la teneva sveglia quando non aveva ancora abbastanza sonno. Avvicinò il guanciale al viso. Pesava. Pesava troppo perché dentro ci fosse soltanto qualche piuma. I muscoli del viso si contrassero. Faceva uno sforzo enorme. Enorme come la sua volontà. Era determinata. Sapeva cosa voleva, sapeva cosa stava facendo. Sapeva anche come voleva che andasse a finire. Sempre più piano. Ancora più lentamente. E il cuscino sembrava non muoversi di un millimetro. Rimaneva bloccato fra le sue mani, in quella morsa gelida da robot. Sospeso davanti al suo collo, facendola somigliare all’alter ego di una soubrette televisiva che presentava l’ennesimo prodotto sponsorizzato dai consigli per gli acquisti. Contrasse ancora il viso. Pallido, di un biancore innaturale, ma che ormai dominava i suoi tratti da…non se lo ricordava più da quanto tempo, ormai. Da quant’era che sua madre non la vedeva più “bianca e rossa come una mela”? E da quanto tempo era che non sentiva più il calore delle coperte quando si infilava nel letto, la sera? Non se lo ricordava più. I muscoli erano tesi, ma il risultato sempre lo stesso: cuscino ancora fermo, saldo fra le sue dita bianche come vermi. Le venne in mente in quel momento la famosa massima “volere è potere” e le venne da ridere. Aveva tanta di quella forza di volontà nel suo corpo, in quel momento, che avrebbe potuto aprire una banca della volontà. Una Fort Knox di forza interiore. Era riuscita a farsi ascoltare dal suo corpo. Riusciva a dominarlo dopo una vita intera di guerriglie da cui mai era uscita vincitrice, combattimenti che era sempre riuscita a sedare momentaneamente con scialbe alleanze ballerine. Era una vita che si trincerava dietro patti insulsi – le diete, il training autogeno, la palestra estenuante, poi l’anoressia – e ora che finalmente fra il suo corpo e la sua volontà sembrava esserci armonia, sintonia, quel fottuto cuscino non voleva collaborare. Anzi, più provava a sollevarlo verso il proprio viso, più quello si appesantiva. C’era quasi…sì, forse c’era quasi. Mandò un’occhiata allo specchio davanti a lei. La gelida biondina che stringeva quel cuscino un po’ logoro, vestita come una rigida e severa donna in carriera della City nonostante la sua giovane età. Quella era l’immagine di se stessa che dava al mondo. Quella, l’unica immagine che ormai riusciva a tirare fuori dalla piana arida che si stendeva come una cappa di fumo nero dentro di lei. Aveva provato a punirsi per quanto era diventata arida. E glaciale. Si era umiliata fino alla prostrazione. Non era stato abbastanza. E aveva deciso di soffocarsi, alla fine. Così da portare via con lei tutto quanto: quello che avrebbe potuto essere un campo di papaveri rossi e piccole margheritine candide e che ormai non era altro che l’autopsia di un dolore bianco. Un dolore bianco perché senza lacrime. Che non sgorgavano più e avevano fatto pietrificare quel po’ di colore che di lei era rimasto. Pigmenti di fulva felicità, punte di opalescente serenità che erano cristallizzati per sempre nelle sue arterie. Una linfa vitale che non scorreva più. In lei, niente era più umano. Si sentì più forte, consapevole della sua natura irreversibilmente alterata. Non avrebbe mai voluto arrivare fino a quel punto. Mai se lo sarebbe immaginato. Il cuscino aveva ripreso a salire. Gettò un’ultima occhiata allo specchio. D’altronde non avrebbe mai voluto neanche quella cicatrice. Quel taglio netto e preciso che brillava, spaccando il suo corpo in due. Quella cicatrice che vedeva solo lei, ma che faceva male. Una cicatrice. Tutto ciò che le restava di M dopo la sua morte. Tutto ciò che le restava di una ferita che le aveva rubato la sua umanità e che mai si sarebbe rimarginata. Chiuse gli occhi e trattenne il fiato finché non sentì più nulla nella trachea.

“Love of my life, you hurt me,

You’ve broken my heart, and now you leave me.

Don’t take it away from me, Because you don’t know what it means to me.

Love of my life.”

 

A M.

 

Currently listening: “Love of my life” – Queen

http://www.youtube.com/watch?v=7hFeER3_ZRQ